giovedì 26 aprile 2012

Rifondazione Comunista dice si alla sovranità nazionale

Io parlo di Sovranità 
Il comunismo non contrappone, ma accorda e unisce il patriottismo e l'internazionalismo proletario poichè l'uno e l'altro si fondano sul rispetto dei diritti, delle liberta' dell'indipendenza dei singoli popoli. E' ridicolo pensare che la classe operaia possa staccarsi, scindersi dalla nazione (P.Togliatti)

Da almeno due anni ho volutamente incentrato parte rilevante delle mie riflessioni, dei miei approfondimenti, delle mie analisi, su un tema che considero principale: la sovranità nazionale.
Il tema della sovranità (nazionale, monetaria, energetica, ecc) è taciuto o ridimensionato nei partiti comunisti e della sinistra italiana.
Soprattutto all'interno di Rifondazione Comunista ho sempre incontrato molta difficoltà nel dibattere di questi temi, citare gli stessi Togliatti o Lenin, è impresa spesso poco tollerata. L'accusa ridicola spesso è quella di essere definito un nostalgico. Accuse patetiche, mosse solo per evitare il confronto. Come ci si può definire comunisti e allo stesso tempo rinnegare la nostra storia? Dobbiamo invece studiarla per poi saperla adattare alle problematiche dei giorni nostri.
Ma se una parte del partito vuole evitare il dibattito, tanti compagni ne sono interessati. Il commissariamento della BCE, le misure di austerity, i trattati europei stanno mostrando il vero volto del nemico. Spesso sono al centro del ciclone proprio per questa mia precisa volontà. Io penso che l'UE, e con essa l'euro, imploderà. Sostengo che dobbiamo riconquistare la sovranità, senza per questo isolarci. Relazionarci in primis con i PIIGS. Staccarci dagli USA per guardare ai Brics. Riconquistare la sovranità, ritornare ad un forte controllo statale dell'economia, essere liberi di scegliere il nostro destino.
Ieri abbiamo festeggiato il 25 aprile, io vorrei festeggiare una nuova liberazione, quella dall'occupazione economica denominata Unione Europa.


L'Ue e la lotta di classe "nazionale"
In verità, l'UE, nella misura in cui prosegue il suo sviluppo, si trasforma sempre di più in un'autentica minaccia contro la sovranità della maggior parte degli stati-membri e in un pericolo mortale per le conquiste democratiche e sociali ottenute dalla lotta dei lavoratori dopo la sconfitta del nazifascismo.(“Avante”, settimanale del Partito Comunista Portoghese)

L'UE sta portando nel baratro la Grecia, e con essa tutti i paesi dei PIIGS, compresa l'Italia. La totale perdita di sovranità sta conseguentemente distruggendo tutte le conquiste ottenute dai lavoratori negli ultimi 40 anni di lotte. Ieri in Grecia. Oggi sta accadendo in Italia, Spagna, Portogallo.
La crisi dei paesi globalisti sta movimentando l'Europa politica/economica (quella culturale a mio avviso non esiste) e la prospettiva socialista. Siamo difronte ad una crisi in cui l'UE fa la parte dello sciacallo e i paesi del PIIGS quella delle vittime sacrificali. Riporto un dato: lo stipendio medio netto di un lavoratore italiano l'anno scorso è stato di 25.160 dollari, davanti alla Grecia (17.708 dollari) e al Portogallo (21.013), ma dietro a Spagna (27.741). Ma oltre ai Piigs, c'è l'altra Europa:  Francia (29.798), Germania (33.019) e Gran Bretagna (38.952)

La lotta di classe in ambito "nazionale" è d'ostacolo alla lotta di classe globale? La battaglia contro le delocalizzazioni la si può vedere come lotta tra poveri o lotta tra le varie "lotte di classe nazionali"? Queste domande meritano una risposta ragionata, attenta e non semplicistica.
Pensiamo alla delocalizzazione della Fiat in Serbia, Polonia, ecc o della Renault in Marocco dove un operaio prende 250 euro al mese. Secondo il sindacato francese gli europei compreranno solo automobili “europee” prodotte fuori dall'UE. La distanza tra governi e cittadini si fa sempre più ampia, e colpisce le istituzioni europee, travolte anch’esse da un generale discredito. Un gruppo di economisti e studiosi francesi riuniti nell’associazione “Per un dibattito sul libero scambio”, ha commissionato all’istituto Ifop un sondaggio in vari paesi europei che rivela una forte richiesta di protezione da parte dell’Unione europea. Al centro delle preoccupazioni delle popolazioni c’è l’occupazione e il modo per proteggerla e rilanciarla in un’Europa che sta perdendo posti di lavoro industriale. Il problema della delocalizzazione di attività nei paesi emergenti/convenienti (per il capitale) e del deficit commerciale di Italia, Spagna e Francia accumulato negli anni, pone un grosso problema alle nostre economie. Questi deficit frenano la crescita delle economie occidentali e comportano un’accumulazione del debito dei nostri paesi. L’Unione europea rischia di essere fortemente rigettata dai popoli se continua ad ignorare queste questioni.

La questione nazionale e il socialismo
Noi esigiamo la libertà di autodeterminazione, cioè l'indipendenza, cioè la libertà di separazione delle nazioni oppresse, non perché sogniamo il frazionamento economico o l'ideale dei piccoli Stati, ma, viceversa, perché desideriamo dei grandi Stati e l'avvicinamento, persino la fusione, tra le nazioni su una base veramente democratica, veramente internazionalista, inconcepibile senza la libertà di separazione.(Lenin)

La questione nazionale non deve essere liquidata o ignorata, va affrontata e adattata al XXI secolo perchè il nostro contributo lo diamo qui, sul territorio nazionale, senza dimenticare la solidarietà interNazionale.
Le esperienze socialiste (tutte) si sono strutturare sulla propria nazione. Al contrario è utopico pensare ad una rivoluzione globale, una rivoluzione che non parta dalle nazioni o da un'utopica "Europa dei popoli" o "abolizione dello stato". Tutte le vittorie socialiste (in un solo stato) poi hanno costruito relazioni con altri stati per sopravvivere e vivere. Non si tratta di creare "piccole patrie" chiuse in riserva, ma di costruire legami e cooperazioni, ma in base ad interessi nazionali. E' su un piano nazionale che si struttura il cambiamento di regime, e dentro i "sacri confini" che possiamo avere una speranza di difendere, acquisire e consolidare le conquiste dei nostri diritti, lavorando nelle nostre peculiarità socio-economiche e culturali.

La crisi nell'Unione europea, dell'Eurozona, si approfondirà; che negli anni a venire l'UE non resterà così com'è, si restringerà, creerà enormi problemi al popolo: di conseguenza il popolo deve emanciparsi dalla via a senso unico della UE e dal sistema di sviluppo imposto dai capitalisti, dai monopoli a scapito del popolo (KKE - Partito Comunista Greco)

La sovranità la si riconquista partendo dall'uscita dall'UE, dalla BCE, dalla Nato. Il commissariamento italo/greco convince ancor di più della bontà di questa teoria. I casi Argentina e Veneuzuela sono molti interessanti, ultimo il recupero argentino della sovranità nazionale degli idrocarburi che ha portato alla nazionalizzazione del petrolio. È il trionfo della linea nazionalista, che punta a un maggior controllo dello Stato nei settori strategici. Il Segretario Nazionale del PRC, Paolo Ferrero, elogia la "sovranità nazionale degli idrocarburi" argentina, come Patricio Echegaray, segretario del Partito Comunista di Argentina. Perchè lo fanno?
In Argentina c'è il socialismo? Non direi.
In Argentina c'è un governo sovranista, nazionalista, ultra protezionista che sta sostenendo il popolo? Si. La sovranità non è il fine, non è il socialismo. La sovranità è un mezzo indispensabile per costruire il socialismo, per lavorare per il bene del popolo.
Il movimento del Sud America si sta liberando dai suoi padroni (USa e paesi colonizzatori), noi dobbiamo liberarci dall'UE e dai suoi vincoli economici.
Nei giorni scorsi è uscito un dato che trovo assolutamente interessante. La Banca Mondiale ha mostrato i dati per cui i paesi del Sud America stanno sconfiggendo la povertà estrema. I due paesi che hanno ridotto maggiormente la povertà, dal '99 al '10, sono l'Ecuador di Correa (-26,4%) e il Venezuela di Chavez (-21,6%). Lo stato del Sud America con la povertà più bassa è l'Argentina (-15,1%).
Non è casuale questo dato. Gli stati socialisti di Correa e Chavez e il peronismo di sinistra di Cristina Fernández de Kirchner sono i veri protagoninisti della lotta alla povertà per la costruzione di patrie socialiste per la riconquista della giustizia sociale.

L'esperienza sud americana è interessantissima, ispiratrice, ma ovviamente non esportabile. Io penso e cerco di capire la via "italiana" al socialismo. A partire dagli interessi nostri, per cooperare pacificamente con tutte le altre realtà libere e sovrane perchè una piccola patria isolata non potrebbe sopravvivere. Riconquistare la sovranità nazionale per salvare la nostra costituzione e lavorare per costruire la via italiana al socialismo. Il momento storico è propizio. La crisi può fornirci l'occasione, oggi è più profonda che mai, il capitalismo è in agonia, perchè non produce più valore, le economie sono ferme, l'accumulazione reale è ferma. Ora tocca a noi farci trovare pronti con delle idee concrete, radicali ed attuabili!

Buona lettura e buona discussione. Se persino Pegolo, Torsi, Belligero arrivano a dire pubblicamente: "il giusto obiettivo della sovranità nazionale" vuol dire che il dibattito ormai non si può arrestare. Perchè dunque non partire da questa analisi interna a Rifondazione Comunista? Eccone una sintesi.

Andrea 'Perno' Salutari



La mobilitazione democratica delle associazioni altruistiche non è in grado di intercettare problemi, umori e linguaggi della parte più deprivata delle classi subalterne. Questa parte, fatta di lavoratori dipendenti a bassa qualificazione, di autonomi che sono in realtà più dipendenti dei primi (si pensi al lavoro dell’autotrasportatore, strettamente legato – a rischio della vita – ai tempi dell’impresa) e di ceto medio fortemente impoverito dalla crisi generale, si allea ad alcune frazioni, meno forti, della borghesia anche perché l’altra parte del popolo, quella composta di dipendenti ed autonomi ad alta qualificazione, si allea di fatto alla frazione forte, globalista ed europeista del nostro capitalismo. Rompere queste alleanze, e costruirne una, nuova, tra le diverse frazioni popolari, è decisivo per la lotta egemonica: lo si può fare solo se, tra l’altro, non ci si ritrae di fronte al linguaggio populista dei nuovi conflitti. E se si trovano figure unificanti che, pur radicate in una analisi di classe, sappiano rivolgersi ai diversi soggetti sociali ed alle diverse forme di vita degli stessi “proletari”. In questo quadro diviene opportuno parlare di sovranità popolare e nazionale, come collante di un nuovo blocco sociale e base di una nuova politica.

Sovranità nazionale non è nazionalismo. E’ ridiscutere democraticamente quale sia lo spazio sovranazionale in cui il Paese di deve in ogni caso far parte. Qui si fa sentire un altro degli effetti della crisi: la progressiva dissoluzione dello spazio “globale” ed “europeo” nel quale eravamo soliti muoverci. Il multipolarismo è, in questo senso, uno spazio più favorevole della (presunta e parziale) globalizzazione, perché è l’unica griglia che possa sottoporre a controllo i flussi altrimenti devastanti dei capitali transnazionali. E non è più possibile trasformare l’Unione Europea in qualcosa di più paritario, cooperativo, democratico: è piuttosto necessario iniziare da subito a definire e costruire uno spazio mediterraneo-mediorientale in cui inserire il nostro Paese, prima come prospettiva da far balenare nelle trattative comunitarie, poi come concreta alternativa all’Unione monetarista.

Infine se la crisi è davvero crisi di un intero modo di produzione e dei rapporti sociali e geopolitici che lo sostengono, la si può attraversare solo avendo un modello alternativo forte, che non può ridursi alla sola economia decentrata, sociale e cooperativa. Bisogna quindi ritrasformare il nostro comunismo da ideale ad idea, da lontano orizzonte a forma realisticamente possibile di una nuova produzione e di un nuovo Stato. Bisogna dunque pensare da subito ad un concreto socialismo, basato sull’intreccio tra proprietà pubblica, sociale e privata, gestito da uno Stato rinnovato, controllato da autonome istituzioni popolari. E quindi (ulteriore e forse più importante lezione della crisi) bisogna tornare a considerare la conquista-trasformazione del potere di Stato (non a caso confiscato in questi anni dai capitalisti, mentre noi si chiacchierava di “autonomia del sociale”) come uno snodo senz’altro non sufficiente, ma comunque assolutamente necessario di qualunque strategia popolare.

1.1. Conflitti anomali
La crisi ha inaugurato, o portato alla massima evidenza, quello che propongo di chiamare “capitalismo a somma zero”. Se in precedenza, ed anche negli anni della crescita drogata, al massiccio aumento della ricchezza dei capitalisti corrispondeva un ben minore, ma comunque sensibile, aumento della ricchezza (reale o apparente) dei lavoratori, oggi avviene il contrario: il capitalismo sopravvive grazie all’incrudimento del tradizionale sfruttamento di classe e grazie all’espropriazione diretta delle risorse pubbliche e di ciò che prima spettava al lavoro (pensioni, servizi, beni comuni, ecc.). Oggi è sempre più chiaro che ciò che gli uni acquisiscono gli altri perdono: da ciò lo scatenarsi di numerosi e diversificati conflitti.

1. 2. Questioni di classe
Le principali linee di divisione corrono tra stabili e precari, qualificati e dequalificati, uomini e donne, dipendenti, semiautonomi e autonomi, autonomi che servono imprese e autonomi che servono consumatori individuali. Gli intrecci tra queste diverse divisioni possono dar luogo a numerose combinazioni. Tutti questi lavoratori hanno di certo un avversario in comune: tutti sono infatti soggetti ad un processo di proletarizzazione, gestito dall’insieme del capitalismo italiano, che si traduce nella perdita di garanzie per gli occupati stabili, nella diminuzione delle prospettive dei precari, nella crescente sottomissione alle imprese committenti degli autonomi di seconda generazione, nel rapido declassamento degli autonomi di prima generazione [...]
Date queste differenze, la costruzione di un blocco sociale che comprenda tutte le figure del lavoro oggi subalterno non può essere l’effetto di un progetto sindacale (anche se “one big union” capace di comprendere tutti è in futuro possibile) ma solo di un progetto politico di alto profilo che, partendo dal fatto che nessuna delle frazioni della classe dominante è in grado di assicurare un futuro, si presenti espressamente come rottura delle diverse alleanze subalterne con la classe dominante e come efficace riduzione del potere di queste ultime. Infatti, tutte le diverse proposte di uscita “a sinistra” dalla crisi (beni comuni, reddito di cittadinanza, rilancio della domanda di beni di consumo, politica industriale e via elencando) non hanno alcun senso se si concepiscono e si presentano come semplici alternative di politica economica e non, piuttosto, come causa ed effetto di una trasformazione dei rapporti sociali, di un’ alleanza delle diverse frazioni di una classe contro le diverse frazioni dell’altra, al fine di ridurre il potere dei dominanti.

1.3. Espropriare gli espropriatori
Nessuno stabile sviluppo è possibile in Italia senza un pesante ritorno dell’intervento pubblico nell’economia e senza un immediato controllo democratico e popolare di questo intervento. Nulla di serio si può fare senza la sostituzione dell’attuale intreccio putrescente fra Stato ed interessi privati (nel quale naufragano anche molti gruppi della “società civile”) con la distinzione tra uno Stato autorevole (capace di riprendere la propria funzione di indirizzo e redistribuzione) e una società indipendente (fatta di associazioni capaci di controllare, criticare e all’occorrenza sostituire i gruppi dirigenti dello Stato). Ma tutto questo comporta necessariamente l’espropriazione (e comunque la drastica riduzione del potere) di quei gruppi privati a cui sono state svendute industrie e banche pubbliche, e che saccheggiano le amministrazioni centrali e periferiche con la spregiudicata gestione di appalti e concessioni.


1.4 Sovranità popolare (e nazionale) vs populismo
Un simile programma può essere attuato solo da un forte governo popolare. Per accumulare le forze necessarie a costituire un tale governo è necessario iniziare a superare fin da ora la divisione fra i diversi gruppi di lavoratori. Tali divisioni sono di ordine sia materiale che simbolico e riguardano essenzialmente la questione fiscale, le forme di organizzazione e le forme di autorappresentazione ideologica.

Nell’emersione dei nuovi conflitti la partita dell’egemonia si gioca, oltre che sulla questione dei programmi, sulla capacità di essere i primi a proporre forme di organizzazione efficace. Il modo in cui questo conflitti vengono organizzati oggi condizionerà in maniera decisiva il modo in cui si svilupperanno domani, entrerà a far parte del DNA di un intero movimento popolare. Vanno certamente tentate modalità organizzative di tipo sindacale. Ma l’iniziale eterogeneità delle figure e degli obiettivi suggerisce piuttosto, come modello organizzativo di base, i comitati popolari contro la crisi

Tale ideologia non può essere l’ideologia classista a cui siamo abituati, e nemmeno può nascere dall’integrazione tra classismo e associazionismo civile che è stata tentata dal movimento altermondialista, ma non è penetrata nella grande massa dei ceti subalterni. Deve piuttosto essere un’ideologia popolare, dove “popolo” indica tutti coloro che lottano non contro la libertà altrui, ma per la propria libertà e dignità (Machiavelli), tutti coloro che rivendicano dignità e libertà non contro altri segmenti del popolo (come vorrebbe il populismo), ma solo contro i potenti. “Popolo”, oggi, può raccogliere ed unire più di “classe”: perché non è solo la classe a mobilitarsi, perché molti segmenti crescenti della classe si concepiscono più come popolo che come lavoratori organizzati, e soprattutto perché anche la mobilitazione di classe, per porsi all’altezza di uno scontro che ribalta la costituzione formale e materiale del Paese, deve presentarsi come rivendicazione della sovranità popolare

Sovranità popolare non significa dittatura della maggioranza e rottura dello Stato costituzionale di diritto (come, di nuovo, vorrebbe il populismo), ma sottrazione del potere di decidere alle oligarchie finanziarie (Ferrajoli). Sovranità nazionale non significa affatto nazionalismo, ma difesa di uno spazio in cui sia possibile assumere decisioni democratiche e quindi ridiscutere liberamente il modo in cui si intende essere partecipi di uno spazio sovranazionale.

2.1. Multipolarismo
Dobbiamo abbandonare decisamente l’idea della “globalizzazione dal basso”, ossia l’illusione che la globalizzazione possa essere democratizzata. Il movimento antagonista deve continuare a costituirsi globalmente, ma la sua politica non può più essere globalista. Infatti la globalizzazione è essenzialmente liberalizzazione completa dei movimenti del capitale, e questa crea un continuo dumping sociale che distrugge l’organizzazione dei lavoratori e dei cittadini e dunque rende impossibile la democrazia. Volere la globalizzazione democratica è come volere il capitalismo democratico, ossia qualcosa che era assai difficile ottenere nell’epoca del capitalismo nazionale e del patto socialdemocratico, e che diventa impossibile ottenere adesso, nell’epoca del capitalismo “assoluto” e “senza compromessi”, assoluto perché globalizzato

2.2. Oltre l’Europa
L’Unione Europea, come progetto realmente unitario e unificante, è finita. Nel futuro avremo l’Europa “a due velocità”, o l’esplosione dell’Unione. Ciò equivale a dire che i PIIGS saranno condannati ad una lunga recessione ed alla definitiva integrazione subalterna nelle economie “forti”, e che i cittadini di tutto il continente saranno condannati a pagare un modello fondato sulle esportazioni. In queste condizioni l’ “altra Europa”, l’Europa “sociale”, costruita “dal basso” è una pura illusione: è impedita dalla struttura istituzionale dell’Unione, dalla cultura delle sue burocrazie, dall’orientamento delle classi dominanti delle nazioni più forti, dall’inesistenza di una realistica alternativa socialdemocratica, dall’inesistenza di un efficace movimento popolare continentale, reso ancor più difficile dalle prospettive di recessione.

Il nazionalismo non è sempre e comunque un male. Quando serve a reprimere la lotta di classe interna sviandola nella lotta contro presunti nemici esterni è un male. Ma quando la repressione della lotta di classe avviene attraverso una particolare forma di internazionalizzazione, il nazionalismo può essere, momentaneamente, una parte della risposta: tutte le più importanti esperienze progressive di questi anni hanno una qualche componente nazionalista, quando non indigenista-comunitarista (Venezuela, Colombia, in parte lo stesso Brasile). Ma il nazionalismo non è una risposta valida per l’Italia [...] La nostra unica speranza, che peraltro si riallaccia a storiche tendenze del Paese, sta nella creazione di un nuovo spazio sovranazionale, centrato sul mediterraneo, aperto alle dinamiche progressive del nordafrica e del medioriente e ponte verso l’Asia e la Cina. Uno spazio estremamente ricco di capitali, di lavoro, di energia, il cui sviluppo sarebbe anche condizione per la rinascita del nostro Mezzogiorno, e quindi del Paese intero.
La costruzione di questo spazio [...] deve essere giocata in un primo momento all’interno delle dinamiche europee, come elemento che aumenti il nostro potere di negoziazione, ma deve essere vista, in prospettiva non remota, come alternativa all’Unione Europea ed alla sua deriva monetarista e recessiva.


2.3. Dignità del lavoro, dignità del Paese
Non dobbiamo, dunque, essere nazionalisti. Eppure dobbiamo reinserire nel nostro lessico la “nazione” come categoria economica, politica ed ideologica. Non la nazione come etnia, come deposito di una storia o come comunità linguistica, ma la nazione come spazio di diritti, come luogo di possibile decisione democratica di contro alla chiusura tecnocratico-capitalistica degli spazi sovranazionali. La nazione come punto di partenza di una politica e di una dimensione sovranazionale alternativa, e non come punto di arrivo di una illusoria autarchia.

Come notava Gramsci, non è detto che una forma storicamente superiore di Stato, più conforme all’evoluzione economica mondiale, sia necessariamente positiva anche per i lavoratori, e quindi non è detto che ogni passo indietro rispetto a quella forma sia necessariamente reazionario. Non è detto che la globalizzazione e l’Unione Europea, astrattamente progressive rispetto alla nazione ed al nazionalismo, siano progressive anche concretamente: ed in realtà mostrano di essere regressive. Lo spazio nazionale può dunque momentaneamente tornare ad essere progressivo, ma a due condizioni:
1) che sia definito a partire dagli interessi popolari e
2) che si apra immediatamente ad una forma di cooperazione sovranazionale, costituendo una delle aree regionali dell’equilibrio multipolare.

Gli interessi popolari si riassumono sostanzialmente, oggi, nella riconquista della dignità del lavoro (nuova e stabile occupazione, riconoscimento del ruolo centrale del lavoro nel processo produttivo), in un mutamento della struttura dei consumi che punti a soddisfare i bisogni essenziali, in una tutela generale dell’ambiente naturale e sociale. Le classi attualmente dominanti non sono in grado di affrontare seriamente i problemi nazionali perché i capitalisti che si sono appropriati delle aziende e delle banche pubbliche

3.1 Crisi, capitalismo di Stato, socialismo
Il nostro obiettivo storico deve tornare ad essere il comunismo. E poiché quest’ultimo può esistere solo come combinazione concreta di produzione sociale e privata, di democrazia autorganizzata e rappresentativa, di società autogovernata e di Stato costituzionale di diritto, è al socialismo che dobbiamo puntare come forma effettiva di realizzazione della tendenza comunista. Di fronte alla crisi non basta, infatti, rivendicare diritti, democrazia, politiche economiche progressive. La crisi non dipende solo dalla finanza, ma anche da una struttura proprietaria delle imprese; non deriva solo dal deficit di domanda “popolare”, ma anche dalla diminuzione degli investimenti industriali, sempre meno profittevoli, nonostante la continua compressione del lavoro, dato l’alto costo dell’innovazione, della ricerca e della commercializzazione.

Non basta rivendicare i beni comuni se non si comprende che il capitale stesso è un bene comune in quanto prodotto sociale, ed è quindi giusto riappropriarsene. Non basta rivendicare l’economia sociale e cooperativa, se questa lascia intatte le grandi imprese e la loro logica. Non serve la retorica della lotta sociale, l’autocelebrazione delle capacità creative della cooperazione, della moltitudine, del lavoro, se il lavoro vivo non si riappropria di quel lavoro morto (macchinari, strutture organizzative, denaro: ossia imprese e banche), che pur essendo un suo prodotto, continua ad ergersi contro il lavoro stesso come una potenza estranea ed ostile (Marx). Nessun errore sarebbe più grave, di fronte al ritorno del capitalismo di Stato, del reagire con la solita contrapposizione tra Stato e società, rifugiandosi nella seconda per tentare di “condizionare” il primo.

3.2 Importanza dello Stato
Senza condizionare, influenzare, conquistare e trasformare il potere dei governi nazionali (come premessa della presa e trasformazione degli apparati statali in generale) le classi subalterne resteranno per sempre tali. Il che comporta (oltre alla consapevolezza che si tratterebbe comunque solo di una parte della trasformazione necessaria) che la politica delle classi subalterne non può consistere solo nella crescita progressiva della democrazia sociale e delle sue istituzioni autorganizzate, ma deve tornare ad essere anche azione coordinata per spostare, in congiunture determinate, i rapporti di forza tra le classi al fine di conquistare i diversi “pezzi” di Stato di volta in volta decisivi, ed in particolare i governi nazionali (Lenin).
Il nostro “comunismo di società” quindi, pur facendo sempre perno sull’autonomia delle istituzioni di movimento, non può limitarsi ad essere un pensiero del “non-Stato” e deve divenire anche pensiero del nuovo Stato, ossia della nuova combinazione di organi, pubblici e no, capaci di assicurare continuità (Gramsci) alla nuova forma di riproduzione sociale.

3.3 Programmi per il tempo breve, medio e lungo
Come parte potenziale di una V Internazionale tutta da costruire, il movimento comunista italiano (e con esso tutta la residua sinistra) deve battersi per un programma immediato di ricostruzione di un blocco sociale anticapitalista, per un programma intermedio di governo popolare, e in prospettiva per un programma socialista.

Nella cornice della rivendicazione della sovranità popolare e nazionale, il programma immediato punta a rompere l’alleanza subalterna delle diverse frazioni popolari con le diverse frazioni capitaliste. Lo fa proponendo una forte redistribuzione del reddito dall’alto in basso, con particolare attenzione a non colpire ulteriormente le categorie intermedie in via di proletarizzazione, che sono la vera posta in gioco di una lotta per l’egemonia. Lo fa iniziando a costruire autonome istituzioni di movimento in cui si unifichino i diversi strati popolari. E proponendo un ripudio delle politiche europee.

Si può certamente avere un’altra idea di socialismo ed un'altra idea di società. Ma chiunque voglia affrontare la crisi per quello che essa effettivamente è deve proporre comunque una visione forte del futuro, l’idea di una nuova situazione per la quale lottare. Solo così un partito comunista potrà tornare ad essere qualcosa di più del ricettacolo di differenti famiglie politiche, del vessillifero di qualche generoso e confuso ideale, e potrà tornare ad essere un’idea che diviene organizzazione, e quindi senso comune.

In questo link (Lezioni dalla crisi) potete trovare la versione integrale dell'analisi di Porcaro, sintetizzata da me qui sopra.

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